• Lun. Lug 14th, 2025

Minacce mafiose a Roberto Saviano: confermate le condanne a boss e avvocato

La storia del processo che ha rivelato il vero volto del clan dei Casalesi e il coraggio di chi non si è piegato. Punto segnato per Roberto Saviano!

La Corte d’Appello di Roma mette il sigillo su una verità scomoda: la camorra che minaccia apertamente chi la racconta. Confermate le condanne per le intimidazioni lanciate in piena aula di tribunale nel 2008, durante il processo Spartacus a Napoli.

Francesco Bidognetti, boss dei Casalesi, dovrà scontare un anno e mezzo di carcere. L’avvocato Michele Santonastaso, che lesse e sottoscrisse quel messaggio intimidatorio, un anno e due mesi. Un verdetto che arriva dopo sedici anni di processi, rinvii, udienze interminabili. Sedici anni di attesa, rabbia e paura.

Le minacce non erano velate. Davanti ai giudici, i boss non si limitarono a difendersi: indicarono con precisione chi, secondo loro, doveva pagare. Puntarono il dito contro chi scriveva la verità. Saviano e Rosaria Capacchione diventarono bersagli pubblici, additati come responsabili morali delle condanne del clan.

Un atto eclatante. Una sfida aperta allo Stato. Un messaggio di terrore lanciato non solo a quei giornalisti, ma a chiunque pensasse di raccontare il potere mafioso.

Oggi la giustizia conferma che quelle frasi non erano semplici parole. Erano minacce aggravate dal metodo mafioso. Un metodo fatto di intimidazione, controllo, paura. Un linguaggio criminale che in quell’aula cercò di trasformarsi in sentenza parallela.

Roberto Saviano lo sa bene. Ha vissuto con la scorta, con la pressione costante, con l’ombra di chi non dimentica. Alla lettura della sentenza si lascia andare. Un abbraccio al suo avvocato, le lacrime che sciolgono anni di tensione. Un applauso spontaneo che esplode in aula. Un gesto piccolo ma denso di significato: non siete riusciti a farci tacere.

Saviano però non esulta. Non lo definisce una vittoria. Sedici anni per una sentenza non possono essere un trionfo. Ma sono una prova. La dimostrazione che la camorra non ha paura dello Stato in senso astratto, ma di chi racconta le sue trame. Di chi mette in piazza nomi, affari, violenze.

Perché la camorra vuole il silenzio. Ha bisogno dell’omertà come dell’aria. E quando qualcuno rompe quel muro, scatena la sua vendetta. Ma questa volta la minaccia si è trasformata in condanna. Un segnale a chi pensa che l’aula di giustizia possa diventare palco di intimidazione.

Parte civile in questo procedimento la Fnsi e l’Ordine dei giornalisti. Un modo per ribadire che non era solo un attacco personale, ma un’aggressione all’informazione stessa. Alla libertà di raccontare.

In fondo, questa sentenza non cancella il dolore. Non restituisce a Saviano e Capacchione gli anni di vita negati dalla paura. Ma conferma che la verità non si può zittire. Che raccontare la camorra resta pericoloso, ma non inutile. Che chi minaccia in nome della mafia può ancora essere fermato, processato, condannato.

È la prova che il potere criminale teme le parole più di ogni altra cosa. Perché le parole svelano, denunciano, rovinano i piani.

E ora tocca a noi decidere se vogliamo continuare a parlare.

Dite la vostra nei commenti: la libertà d’informazione va difesa ogni giorno. Che ne pensate?